Il sale della terra, 3 marzo 1944 – 3 marzo 2024. Ottant’anni fa la strage di Balvano

Nella notte tra il 2 ed il 3 marzo di ottant’anni anni fa, nelle gole selvagge del fiume Platano in Basilicata, si verificò la più grave sciagura ferroviaria di sempre in Italia, una delle più gravi nel mondo. Disastro non fu: il treno non deragliò, le persone a bordo morirono soffocate da monossido e biossido di carbonio.

Il treno merci 8017, partito da Napoli e diretto a Potenza, entrò nella galleria delle Armi, poco dopo la stazione di Balvano, e si fermò. Quello che era un treno merci, dunque teoricamente presenziato solo da macchinisti, fuochisti, frenatori e da una piccola pattuglia di militari, in realtà trasportava centinaia di persone, in gran parte provenienti dalla Campania, dirette a Potenza nella speranza di acquistare viveri. I morti furono 517 secondo le cifre ufficiali. I corpi vennero allineati dai soccorritori sulla banchina della stazione di Balvano-Ricigliano.

Poche e scarne le note di agenzia. Il consiglio dei Ministri riunito a Salerno il 9 marzo riportò questa dicitura: “Tutto il personale addetto al treno è deceduto, all’infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo“. La sciagura? “Da attribuirsi alla pessima qualità di carbone fornito dagli Alleati“.

Prima anomalia, quella dei “viaggiatori di frodo”: in realtà molti di loro erano in possesso di regolare biglietto. E poi, le cause: la cattiva qualità del carbone.

Davvero fu solo il carbone?

Quella di Balvano fu una strage impunita: nessuno venne mai condannato. Una strage da dimenticare, dimenticata per decenni: solo poche righe nei lanci d’agenzia. Morti da dimenticare: più vittime del Titanic, ma si trattava di anonimi affamati; accatastati sul marciapiede della stazione in attesa che in tutta fretta si scavassero le fosse comuni, dove la maggior parte di loro finì prima che i parenti potessero giungere sul posto a reclamarne le spoglie.

Perché tutto questo?

Da oltre cinque mesi la Basilicata era stata conquistata dagli Alleati, che continuavano l’avanzata verso nord coi bombardieri dell’aviazione britannica RAF e quella australiana RAAF che decollavano dalle basi libiche scaricando bombe sugli obiettivi strategici ma seminando morte anche fra i civili e distruzione. Gli Alleati, sbarcati in Sicilia nel luglio 1943 ed entrati a Potenza il 22 settembre 1943, controllavano l’impalcatura amministrativa del Regno del Sud; lo stesso valeva per le ferrovie, dove il personale FS era assoggettato in toto al Military Railway Service, che utilizzava le linee per le proprie esigenze, dal trasporto di truppe a quello delle merci.

Per alcune zone in quei giorni confusi era difficile garantire l’approvvigionamento di viveri sul posto; per cui, come succedeva nel Napoletano, ogni giorno centinaia di persone partivano verso la Basilicata, dove il raccolto permetteva un’offerta di farina e prodotti alimentari non disponibile in altre zone. I contadini del Potentino cedevano generi alimentari ricevendo in cambio vestiario, posate, lenzuola, coperte. L’unico mezzo per arrivare sul posto era il treno: essendo scarso il traffico viaggiatori (e i soldati avevano la precedenza), gli affamati si riversavano sui treni merci. Le autorità alleate, per prevenire gli assalti ai treni merci, installarono presidi armati nelle principali stazioni, con scarsi risultati.  I treni venivano presi d’assalto, spesso in punti non presidiati, e si utilizzavano tutti gli spazi disponibili, respingenti e tetti dei carri compresi, spesso con tragiche conseguenze.

Il treno 8017 del 2 marzo era trainato da un E626 nella tratta Napoli-Salerno; la locomotiva elettrica venne sostituita da due locomotive a vapore, una 480 in testa ed una 476 di fabbricazione austriaca, ceduta all’Italia per riparazione dei danni della prima guerra; entrambe le locomotive erano indicate per percorsi di montagna.

A Battipaglia vennero agganciati al treno altri 24 carri, in aggiunta ai 24 originari, di cui uno occupato da militari in trasferimento. 48 carri (520 tonnellate) per due locomotive: sulla carta, la prestazione era sufficiente a superare le rampe della linea dove, però, una disposizione stabiliva in 350 tonnellate la massima massa rimorchiabile.

Battipaglia fu l’ultima stazione dove vennero effettuati i controlli: scoppiarono tafferugli tra la polizia militare alleata e i viaggiatori che avevano trovato posto sul treno; una parte di questi venne fatta scendere e allontanare e, paradossalmente, fu la loro salvezza. Nelle fermate alle stazioni successive salirono altre persone, alcune già respinte in precedenza.  

Il pericolo principale per ferrovieri e viaggiatori era costituito dal monossido di carbonio prodotto dai fumi delle locomotive, che ristagnava nelle gallerie dove l’aerazione non era sufficiente. Nonostante macchinisti e fuochisti usassero espedienti per non perdere conoscenza, come il coprirsi il volto con fazzoletti inzuppati, questo a volte non bastava.

E poi, appunto, il carbone. Fino all’8 settembre 1943 il carbone per le locomotive giunse dai bacini carboniferi della Ruhr; con l’avvento degli Alleati il carbone arrivò dall’America, e si trattava di una qualità decisamente inferiore (“piccola pezzatura e molto zolfo”), che costringeva ad aumentare i consumi, con maggior produzione di scorie nelle caldaie e minore resa, il tutto in strette gallerie dalla scarsa areazione.        

Dopo l’ennesima sosta nella stazione di Balvano, il treno 8017 ripartì alle 0.50 del 3 marzo. Faceva molto freddo, fino alle 22 aveva piovuto, pioggia mista a neve. In circa 20 minuti l’8017 avrebbe dovuto coprire la tratta sino alla successiva stazione di Bella-Muro. Dopo 1700 metri il treno entrò nella galleria delle Armi, 1 968,78 metri con pendenza media del 12,8‰. Nella galleria ristagnavano ancora i gas venefici del treno transitato un’ora prima. Dopo circa 500 metri, la locomotiva di testa cominciò a slittare, il treno perse velocità fino a fermarsi. Monossido e biossido di carbonio consumarono tutto l’ossigeno.

Il macchinista della 480, la locomotiva di testa, perse quasi subito i sensi; ma, prima di svenire, spinse giù il fuochista; questo gesto gli salvò la vita, unico sopravvissuto degli equipaggi delle locomotive, perché rimase a terra sanguinante ma vicino ad un rigagnolo che gli permise di respirare. Il macchinista della seconda locomotiva, la più potente 476, tentò una manovra disperata: invertire la marcia e far retrocedere il treno. Non ne ebbe il tempo, sopraffatto dai gas perse conoscenza. Assai probabile anche che la manovra di retrocessione sia stata impedita dai frenatori collocati sui carri lungo il convoglio i quali, non udendo i fischi regolamentari, abbiano serrato i freni a mano come da regolamento per evitare un’inversione di marcia giudicata anomala. 

La maggior parte dei viaggiatori passò dalla vita alla morte senza rendersene conto: persero conoscenza già spossati dalle massacranti condizioni del viaggio, stipati nei carri merci, assonnati. I soccorritori ne trovarono molti “ingessati” in pose naturali.

Molte ore dopo il treno venne rimorchiato in stazione. Il medico condotto del paese, con cento fiale di adrenalina, correva da un carro all’altro per cercare di salvare più persone possibile, ma venne poi fatto allontanare dalle autorità alleate giunte sul posto.

Se gli Alleati fecero di tutto per rimuovere al più presto la sciagura (in tutti i sensi), l’inchiesta fu capillare. La causa fu individuata nella correlazione tra ristagno di monossido di carbonio e biossido di carbonio, e carenza d’ossigeno. Ma fini qui; alla capillarità dell’indagine non venne dato seguito; venne fatta poca luce su “responsabilità”, negligenze, concatenazione di cause. Come rivelò il «Times» nel 1951, l’esigenza primaria del governo alleato fu quella di “non divulgare e far dimenticare” nella contingenza bellica, per non deprimere il morale degli italiani. E ci riuscirono: seguirono decenni in cui la strage venne citata fugacemente e con ricostruzioni confuse. In fin dei conti, per la relazione ufficiale del Ministero delle Comunicazioni, si trattava in gran parte di vittime “contrabbandieri” e “viaggiatori di frodo”.  

Abbiamo percorso le gole del Platano. Da quella che fu la stazione di Balvano, distrutta dal terremoto del 1980 e ricostruita con un edificio anonimo e una targa a ricordare la sciagura, abbiamo camminato lungo il sentiero lungo la sinistra orografica del fiume, dalla parte opposta rispetto alla ferrovia. Una gola selvaggia, dove il silenzio è rotto solo dal rumore delle acque che scendono a valle. Difficile e impegnativo descrivere le sensazioni che si provano osservando la ferrovia, che dall’altra parte del fiume sparisce nella vegetazione, poi riemerge, poi buca la montagna, per arrivare al ponte e all’ingresso della galleria sotto il Monte delle Armi. Immaginando il tutto di notte, con un treno che si infila lentamente carico di ferrovieri e passeggeri che stanno per passare dal sonno alla morte.

 

Frammento dell’articolo Il Sale della Terra di Gianluca Gentile, Salvatore Trerotola, Alessandro Pellegatta, che verrà pubblicato su Cub Rail 80.

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